mercoledì 3 dicembre 2014

L’ ANNOSA QUESTIONE DELL’ ARTICOLO 18

dello Statuto dei lavoratori


Il lavoro di Luca Amendola „Dimensioni delle imprese e Statuto dei lavoratori” è breve, ma ad alto peso specifico. Va preso molto sul serio. Mi pare infatti che confuti in un sol colpo tutta la letteratura economica che in questi anni ha sostenuto, con dati alla mano, la tesi dell’ irrilevanza dell’ articolo 18 dello statuto dei lavoratori quanto alle dimensioni delle ditte in Italia.
            Questa letteratura argomenta pressappoco così. Se l’ Art. 18, che entra in vigore per tutte le imprese non agricole con almeno 15 dipendenti, fosse veramente un peso per le imprese ed un ostacolo ad assumere, si noterebbe una presenza sovradimensionata di ditte con un numero di addetti fino a 14 ed una quantità sottodimensionata di ditte tra i 15 ed i 20/25 dipendenti. Infatti gli imprenditori tenderebbero a stare il più possibile sotto la soglia dei 15 addetti. Ma dai grafici costruiti sulla base dei dati raccolti dall’ Istat non si nota nessuno scalino brusco che segnali discontinuità. Ergo: l’ Art. 18 non frena in alcun modo la scelta degli imprenditori nel dare la dimensione giusta alla propria azienda.

            Luca si è occupato esclusivamente dell’ aspetto matematico degli studi economici in merito. Ha preso tali e quali i dati su cui hanno lavorato gli economisti e ha cercato di vedere se la distribuzione decrescente del numero delle ditte dai 5 ai 10 dipendenti corrispondesse ad una distribuzione probabilistica regolare. Ha constatato che era così e non ha fatto altro che costruire una curva che proiettasse anche per il resto della serie (numero delle ditte da 11 a 25 dipendenti) la regolarità che aveva scoperto. Fino alla soglia di 14 la regolarità è rispettata. Dopo, non più.

            Per costruire la serie il nostro Luca si è servito del principio delle leggi di potenza. Che è ‘sta roba? È uno strumento matematico molto utile in economia, in sociologia, ma pure in scienze dure come la fisica e l’ astronomia, per prevedere la distribuzione della frequenza di fenomeni omogenei. Provo a spiegarmi con un esempio, da me costruito, ma che riguarda proprio il tema a partire da cui Vilfredo Pareto introdusse questo tipo di analisi in economia: la distribuzione della ricchezza.
            Nella città Alfa vivono circa 1.285.000 abitanti, suddivisi in circa 367.000 nuclei famigliari (anche i singles sono da considerarsi tali). Cerchiamo di capire come è distribuita la ricchezza e costruiamo cinque classi di reddito annuo: ( A ) le classi dei meno abbienti / fino a 20.000€, ( B ) i ceti medi / da 20.000€ a 40.000€, ( C ) i ceti benestanti / da 40.000€ a 80.000€, ( D ) i ricchi / da 80.000€ a 160.000€, ( E ) i ricconi / oltre i 160.000€.
            Orbene, se scopriamo che il 65% degli nuclei familiari di Alfa appartiene alla classe di reddito (A), ed inoltre scopriamo che il numero di quelli appartenenti alla classe (B) è uguale a sua volta al 35% degli appartenenti alla classe (A), allora, proseguendo con questa proporzione, sapremo in anticipo quanti apparterranno alle classi (C), (D) ed (E). Ecco dunque tutti gli ingredienti per produrre una legge di distribuzione probabilistica da cui sarà facile calcolare quante persone e quanti nuclei familiari, all’ incirca (siamo sempre nel campo delle probabilità), appartengono alle differenti classi di reddito.
A me risulta ad esempio che i nuclei familiari dei ricconi saranno un po’ meno dell’ 1% del totale. Quelli dei ricchi saranno all’ incirca il 2,8% ed quelli dei benestanti circa l’ 8%. Quelli del ceto medio: un po’ meno del 23%. Una volta ottenute tutte le percentuali potremo anche sapere quanti abitanti di Alfa apparterranno alle varie classi di reddito. Ognuno può divertirsi a controllare le mie percentuali e a calcolare il numero degli abitanti di Alfa per classi di reddito.
Torniamo a noi. Luca, una volta calcolata la distribuzione numerica delle ditte che ci si dovrebbe aspettare a seconda delle loro dimensioni, ha costruito una retta usando assi cartesiani a scala logaritmica. Permettetemi di sorvolare su come li si ottengano perché ci complicheremmo la vita, ed il sottoscritto, da non-matematico, scriverebbe di certo qualche strafalcione. L’importante è capire che assi cartesiani di questo tipo permettono di rappresentare la nostra distribuzione lungo una retta, dotata di una bella ed evidente inclinazione regolare.
            Fatto questo, risulta che, a partire dalla soglia dei 15 dipendenti e fino a quella dei 25, il numero effettivo delle ditte e degli addetti di queste ditte è inferiore rispetto a quello che ci si dovrebbe attendere grazie alla legge di potenza. Dall’ articolo di Luca si desume infine, secondo differenti ipotesi, la quantità di occupazione che si genererebbe se l’ Art. 18 fosse cancellato o modificato in modo sostanziale.
            Luca è molto prudente nelle sue tesi, ma non si vede altro motivo che l’ Art. 18 nel produrre quel fenomeno anomalo di riduzione dell’ occupazione. A chi ne vedesse altri sarei grato di segnalarmelo.

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         Mi permetto di riportare una lettera, mandata nel 2003 a Pietro Ichino, e pubblicata sul Corriere della Sera  del 7 agosto 2003, in cui si espone un abuso consentito dall’ Art. 18. Si tratta di un caso-limite che si è verificato nella zona di Treviglio.
Vi prego di leggerlo con attenzione. Agli amici trevigliesi non posso non chiedere una verifica. Sarei loro grato se mi facessero sapere se è tutto vero quel che vi è scritto. Se sì, mi piacerebbe anche sapere se la signora che avrebbe usato l´Art. 18 come un grimaldello è stata sostenuta da qualche sindacato locale.
Se è tutto vero quel che la lettera riporta, si può solo concludere che una legge che consente un fatto del genere, è semplicemente indifendibile.

Ora il link della lettera
e la lettera in pdf:
«Dal 1970 lavoro come tecnica-modellista e responsabile della qualità in un’azienda di confezioni a conduzione familiare che occupa circa 50 dipendenti, ditta presso la quale inizialmente ero dipendente; poi ne sono diventata socia avendone acquisito una piccola quota di partecipazione. Nel 1990 la ditta assunse un’operaia cucitrice che, dopo circa 6 mesi di regolare lavoro, si rese assente dal lavoro con regolare certificazione medica per 13 mesi consecutivi: motivo della malattia, un forte esaurimento nervoso causato dalla morte della madre, avvenuta cinque anni prima. Allo scadere del periodo di comporto, la dipendente, non avendo più diritto a restare assente senza perdere il posto, si presentò al lavoro e subito ebbe una discussione con me in quanto non trovò nello spogliatoio la propria divisa lasciata lì 13 mesi prima, giungendo a minacciare di rovinare i capi in lavorazione. Passata una settimana, la stessa dipendente incominciò a insultare l’amministratore accusandolo di essere un ladro in quanto non le aveva retribuito alcuni giorni di malattia (questi le erano stati trattenuti in quanto durante il periodo di malattia era risultata assente dalla sua abitazione a un controllo dell’Inps). Durante questa discussione la dipendente finse di cadere a terra come fosse stata spinta e addirittura picchiata dal datore di lavoro, aggressione smentita da tutte le altre dipendenti presenti alla scena. Da qui ha inizio l’odissea della nostra azienda. Su consiglio dell’Unione industriali di Bergamo l’operaia viene licenziata per insubordinazione; la stessa impugna il licenziamento e avvia la causa, a seguito della quale dopo un anno il giudice del lavoro di Treviglio dà ragione all’azienda. In appello, anche il Tribunale di Bergamo conferma la legittimità del licenziamento. La dipendente allora propone ricorso alla Cassazione, la quale rimanda il fascicolo al Tribunale di Brescia per appurare alcuni punti. Il tutto si risolve nuovamente con una sentenza favorevole all’azienda. A questo punto la dipendente propone un secondo ricorso alla Cassazione, la quale nuovamente rimette la causa al giudice di appello. Si arriva così alla data maledetta del 6 marzo 2003, quando il Tribunale condanna l’azienda al reintegro della dipendente e alla corresponsione di tutte le mensilità dalla data del licenziamento (anno 1992) sino alla data del reintegro (2003), con interessi e rivalutazione monetaria, contributi previdenziali e relative sanzioni per l’omissione nell’arco di undici anni, oltre a tutte le spese processuali per i sei gradi di giudizio. Oltre a ciò- non dimenticando che abbiamo comunque sostenuto enormi spese per l’assistenza prestata dal nostro legale- poco dopo la sentenza la dipendente ha comunicato che rinunciava al posto di lavoro, ottenendo così, sempre a norma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il pagamento di ulteriori quindici mensilità di retribuzione. E adesso, come fare a pagare un debito così grosso, per una ditta che lavora nel settore tessile, noto per avere margini di guadagno bassissimi? Si sono prospettate due soluzioni: portare i libri in Tribunale e chiudere la ditta lasciando senza lavoro cinquanta persone, oppure ipotecare i beni personali dei soci (nel mio caso, un appartamento a uso di prima casa acquistato dopo venticinque anni di lavoro con mutuo, lo stesso per quanto riguarda l’amministratore). Tra le due ipotesi abbiamo scelto la seconda, perché siamo persone corrette, che amano il proprio lavoro e la realtà che sono riuscite a costruire in oltre trent’anni di attività; e che altrimenti si sentirebbero in colpa verso gli altri dipendenti dell’azienda, i quali hanno anch’essi dei figli da mantenere e il mutuo da pagare. Così mi ritrovo a 58 anni a ipotecare di nuovo il mio appartamento per altri 15 anni, per poter pagare undici anni di retribuzioni e contributi a una persona, che per questo periodo dice di non aver mai lavorato (ma siamo in una zona con tasso di disoccupazione praticamente inesistente). … Io ho sempre avuto fiducia nella giustizia, ma adesso non più. Mi scuso per lo sfogo. Antonia Lavelli»

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Heidelberg, 17 / 11 / 2014

Beppe Vandai

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