sabato 14 settembre 2013

Nazionalizzazione della politica e politicizzazione della nazione, di Fulvio CAMMARANO

A P P U N T I

tratti da Nazionalizzazione della politica e politicizzazione della nazione ( I dilemmi della classe dirigente nell’ Italia liberale ), di Fulvio CAMMARANO, pp. 139 – 163,
di Dalla città alla nazione ( Borghesie ottocentesche in Italia e Germania ) a cura di M. MERIGGI e P. SCHIERA,
Quaderno 36 degli Annali dell’ Istituto storico italo-germanico, Bologna 1993.


––––  P. 139  ––––
Non c’ è nazione matura senza che si sia affermato un sistema politico sufficientemente articolato in due sensi, cioè
a ) quale sistema di rapporti istituzionalizzati che sia staccato dalla società civile,
b ) quale sistema di potere legittimo ed efficace che istituzionalizzi, medi e regoli le dinamiche e i contrasti sociali.

In una nazione matura vige il primato indiscusso del politico, mediante il quale i rapporti sociali e interumani della più varia specie acquistano il valore di legami politici formali regolati da una costituzione.

Due sono i poli attorno ai quali si svolge e si compie il processo che conduce alla nazione matura:

I )  La nazionalizzazione della politica = la politica ha nello stato nazionale un unico punto di riferimento istituzionale. Integrazione del consenso nell’ ambito nazionale.

II ) La politicizzazione della nazione = la società civile si articola politicamente e interagisce, per tramite dei partiti politici, in modo proprio ed adeguato con lo Stato.

––––  Pp. 140 / 141 ––––
Non basta che esistano lo stato nazionale ed il mercato unico affinché si possa compiere il processo della politicizzazione della nazione ( ovvero: formazione di un sistema politico che regoli le spinte ed i contrasti della società civile nel quadro di una costituzione ).

In Italia mancarono nel liberalismo postunitario la coscienza e la volontà di far sì che il Paese si articolasse in modo tale da avere, nei suoi segmenti, una rappresentatività nel sistema politico nazionale. Mancò cioè un’ effettiva volontà costituente. A tutti i liberali, in primis alla Destra Storica, ogni istanza popolare parve un’ agitazione antisistema.

––––  P. 142  ––––
Il dilemma in cui si dibatteva la classe politica liberale era questo:
a ) si voleva diffondere l’ “educazione alla libertà”, ma per far ciò bisognava includere le masse popolari, e questo – per i nostri liberali – era un grosso guaio,
b ) si voleva conservare il sistema politico liberale così come esso era, ma per far ciò si dovevano escludere le masse popolari, e pure questo era un guaio, anche se in senso diametralmente opposto.

Si optò per  ( b ). Ergo: si ebbe
1 ) il “rifiuto liberale del partito come strumento di intervento politico di parte” e
2 ) la “conseguente scelta di larghi settori della borghesia italiana di quel potere indiretto e situazionale rappresentato dallo stato e dalla sua amministrazione “.

––––  P. 143  ––––
“ Il parlamentarismo diventa paradossalmente l’ emblema del frazionamento geografico e dell’ ‘impotenza’ politica della borghesia nazionale.”.

Buona parte del ceto intellettuale finisce per identificare il parlamento con il regno delle ‘miserie’ particolaristiche.

––––  P. 144  ––––
Era profonda convinzione della classe dirigente liberale “che i partiti avrebbero potuto causare il deperimento delle istituzioni liberali (…)  che il processo di politicizzazione della nazione avrebbe preso le sembianze di un inarrestabile moto di trasformazione sociale e di legittimazione della ‘protesta’ se non addirittura delle pericolose ‘subculture emergenti’ “.

––––  P. 145 / 146  ––––
“Le invocazioni (…) alla patria, alla scienza, all’ amministrazione, non sono solo speranze di neutralizzazione della conflittualità politica all’ interno della società ma indicano le radici di una cultura della borghesia italiana che ha già espunto l’ istituzionalizzazione della politica dal proprio orizzonte formativo”.
“ Per Nitti gli stessi ‘ riformisti, di cui i radicali sono la frazione più avanzata, sono essenzialmente conservatori ‘ “.

––––  P. 147  ––––
Per i liberali di allora la sfera del politico coincide con lo Stato quale meccanismo di gestione del diritto positivo vigente per la comunità nazionale.
I nostri liberali non avevano affatto un approccio giusnaturalistico ( né di tipo contrattualistico né individualistico ) alla fondazione dello stato di diritto o dei diritti sociali. Pertanto era loro estranea ogni spinta costituzionalistica.
Volevano sterilizzare ogni radicalismo e superare le divergenze di interessi degli individui e dei gruppi sociali ‘fondendo il popolo’ nella ‘chimica’ dello stato-nazione. 
Quello che dovrebbe essere il compito della mediazione politica viene surrogato dalla gestione amministrativa. In un certo senso i liberali pensavano che lo stato avrebbe ‘fatto la nazione’.


––––  P. 148 / 149  ––––
Nelle ossa della borghesia italiana di quel tempo abitava un timore paralizzante nei confronti dell’ autorità e autorevolezza, della presa sul paese, del papato. Non solo. Anche le tendenze garibaldine e mazziniane erano fortemente temute.
Le conseguenze:
a ) il trasformismo,
b ) il tentativo di recepire le istanze dal basso in modo particolaristico e clientelare.


––––  P. 150  ––––
“ Il sistema elettorale emerso con la riforma del 1882 (…) sembra indirizzato alla cooptazione di nuovi e ben individuati spezzoni di elettorato, espressioni di una società civile in movimento “.

––––  P. 151 / 153  ––––
Il modello liberale post-risorgimentale non prevede l’ istituzionalizzazione dei conflitti sociali e considera partiti che dovessero sorgere dalla società civile come entità extralegali. Con l’ emergere della associazioni socialiste e la fondazione del PSI ( 1992 ) il liberalismo si vede persino costretto ad agire ‘contro natura’, a dover accentuare  “ il peso dell’ intervento statale in campo sociale e dunque quello della normativa amministrativa “.
“ La politicizzazione del paese viene a tutti gli effetti considerata un problema da risolvere, sintomo di crisi…”

––––  P. 154 / 155  ––––
Crispi non vedrà nessuna alternativa ad accentuare l’ interventismo statale, non entrando nel suo ordine mentale l’ idea di un allargamento della base politica del paese, né una rifondazione costituzionale della nazione. Per di più non poteva usare i classici  intrumenta regni della ‘religione’ e della ‘patria’ ( quest’ ultimo occupato dalla ‘pericolose’ tendenze mazziniane ).
Ma lo statalismo crispino creò malumore soprattutto nella borghesia settentrionale, favorendo un suo distacco dalla classe di governo.
Del resto il sistema politico di quel tempo non brillava di certo per i fermenti innovatori. Era un “ sistema in cui ‘ pochi amano apparire oppositori al Governo’  e ‘pressoché tutti’ sono eletti ‘per le aderenze personali nei collegi‘ “. 

Ai ceti dirigenti liberali era estranea l’ idea della politica come conflittualità. Infatti
“ se per moderati  e conservatori la politica assume significato razionale solo in quanto riflesso dell’ unico vero ordine esistente (…) per la sinistra liberale e il radicalismo ‘giacobino’ la politica è statualità nelle sue varie declinazioni, decisionalità per rispondere alla sfida della disgregazione proveniente dalle pieghe di una società ‘arretrata’ e come tale bisognosa di una guida forte “.
“ La domanda di ‘rigenerazione’ che alla fine del secolo serpeggia in numerosi ambienti dell’ intellighenzia liberale italiana, pone l’accento sulla necessità di rafforzare le componenti non elettive del sistema politico in risposta alla degenerazione delle istituzioni rappresentative. “.


––––  P. 157 / 160  ––––
Con la riforma dell’ amministrazione comunale del 1889 l’ elemento locale diventa “un imprescindibile fattore di politica nazionale”.
Con Giolitti si accentuerà il carattere tecnocratico della politica liberale in Italia. Si cerca di rispondere alle istanze sociali rendendo più efficiente la macchina dello stato e dando più spazio alle municipalità, luogo di risoluzione dei problemi, di mediazione tra il particolare ed il generale, di incontro tra lobby locali, amministratori locali ed eletti nel Parlamento.
“ Dietro la stanchezza per la politica e l’ elogio della ‘sana amministrazione’, così tipici di quegli anni, non troviamo in realtà un ritorno al particolarismo ma la trasfigurazione in senso nazionale dei problemi locali e il bisogno di partecipare alla modernità con una forte identità municipale (…) ”.
Il giolittismo cerca di relegare l’ istituzionalizzazione del conflitto sociale nella dimensione locale, laddove vengono distribuite risorse alle forze più organizzate, affinché la loro carica politica risulti ‘sterilizzata’. Proprio questo approccio e questa diffusa pratica allontanerà sempre di più importanti ambienti della borghesia italiana del sapere (soprattutto di formazione umanistica ) dal sistema politico. Radicali, irredentisti e nazionalisti vogliono, pretendono che si metta fine al conflittuale e ‘basso’ groviglio di interessi di parte.
Le strade che intendono percorrere sono però divergenti. Se un Salvemini vuole che una rigenerazione del paese e del sistema politico parta dalla società civile, i nazionalisti puntano invece a integrare dall’ alto ed in modo autoritario la nazione nella su interezza, intendono completare la nazionalizzazione della politica e della masse anche al di fuori dello stato di diritto. Vedono la nazione come un tutto. Per loro “ non è dalla difesa del diritto individuale ( ora magari divenuto diritto sociale ) che il sistema politico trae legittimazione “. Primaria è l’ identificazione comunitaria delle masse nella nazione.
Del resto i nazionalisti sono in un certo senso ‘all’ altezza dei tempi’, visto che anche per i socialisti come per i cattolici solo “ attraverso l’ appartenenza ad una comunità forte ( la classe o la Chiesa ) si diventa cittadini “.
Fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale le tensioni sociali saliranno senza che sia veramente posto, e men che meno risolto, il problema della politicizzazione della nazione, della trasformazione del sistema politico su basi allargate, quale recettore e mediatore a livello nazionale della istanze della società civile.

––––  P. 162  ––––
“ Chiusa l’ esperienza bellica l’ unità politica della nazione diviene realmente un patrimonio condiviso. Il tradizionale sistema del notabilato locale è affiancato da quello del ‘notabilato collettivo’, il partito, ormai indispensabile nella difesa degli interessi di gruppo e di conseguenza nella creazione di un immaginario nazionale di massa. “
“Con l’ introduzione del suffragio universale maschile, la proporzionale e il libero sviluppo delle organizzazioni politiche di massa, il liberalismo italiano può affermare di aver avviato a soluzione il problema storico della nazionalizzazione della politica senza tuttavia aver mai voluto prendere in considerazione quello della politicizzazione della nazione (…).
“ In questo senso sono emblematici gli interventi di Nitti e M. Ferraris, rappresentativi dell’ intero liberalismo post-bellico, che tra il 1919 e il 1920, di fronte alle irreversibili trasformazioni del tessuto socio-politico del paese, negano l’ opportunità di una rifondazione del sistema mediante l’ intervento politico per eccellenza, quello della costituente (…) appellandosi ancora una volta alla forza neutralizzatrice della ‘buona amministrazione’. “. 


Heidelberg 4 luglio 2013

Beppe Vandai


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