giovedì 22 dicembre 2011

Alcune riflessioni da lontano



Cari amici di Treviglio,

l' Italia vive da circa un ventennio un periodo storico che potremmo definire a pieno titolo "apocalittico". Uso il termine nel suo significato originario di "svelamento/rivelazione". Ma attenzione… la nostra apocalisse non ha a che fare con il futuro, bensì con il passato… e poi i cavalieri non sono quattro, bensì uno solo, che tra l’ altro non ha mai avuto in mente di portare una dura giustizia. La faccenda è anzi cominciata in modo quasi ridicolo: un ex venditore di aspirapolvere e cantante da crociera, dalle maniere accattivanti e molto esperto a "nuotare" nel sottobosco della politica, poi re del mattone, poi possessore di televisioni, geniale manipolatore ecc.… ha voluto mettersi direttamente in politica. Roba da ridere. Eppure un simile esemplare di venditore di frottole, del nostro Paese sapeva tanto di più di noi. Mentre ci si lambiccava il cervello per capire come si potesse spiegare la crisi della prima repubblica… e come andasse ridefinito un nuovo assetto democratico, lui sapeva riproporre un vecchio modello che da noi aveva sempre funzionato fin dal tardo medioevo: invece di imbarcarsi in tante discussioni inutili tra le varie „anime“ dei Comuni, bastava che i cittadini lasciassero fare al signorotto di turno e si trasformassero in sudditi. In fondo tutti avrebbero avuto di che mangiare e divertirsi. 

Il nostro Paese aveva del resto già vissuto una fase del genere all’ inizio degli anni venti del secolo scorso. Di fronte alla paura di una rivoluzione sociale, più strillata che preparata, e alle incertezze della democrazia, cavalcando l' onda lunga di una guerra voluta per "forgiare" finalmente la nazione, un ex maestro di scuola ed ex giornalista populista, conquistatasi una piazza in modi rudi e folcloristici, era riuscito a convincere il re ( il re !!! ) a farsi da parte, per affidare il timone del Paese a lui, il dittatore che avrebbe rimesso le cose a posto e fatto di un popolo una nazione. Così il re faceva harakiri per sé e per i suoi discendenti. Che re!! Poi il paese andò a sbattere, grazie a detto timoniere, in una guerra improvvida e tragica. Da allora, da quella dura lezione della storia, sembrò che il paese avesse imparato l' abc dei principi democratici, della divisione dei poteri, della necessaria moralità pubblica e di un sano senso civico, dello sviluppo di un' ampia società civile, e via dicendo.
E invece no… Negli anni recenti abbiamo rivisto zampettare, senza più freni, vecchie arzillissime cavallette:  individualismo, familismo, privatismo, particolarismo, trasformismo, clientelismo, servilismo. Veri "ismi" che costituiscono una nazione!! Abbiamo riscoperto che il nostro ceto medio … è poca cosa, soprattutto qualitativamente, che i nostri intellettuali o sono degli ignavi, o non sanno esprimere una cicca di idea utile, o non sanno comunicarla efficacemente a nessuno.
E' evidente che in Italia si è ricreata una bella simbiosi tra adoratori di mammona, ammiratori del capo politico, rozzi campanilisti e nostalgici della teocrazia. Negli anni recenti, chi si è opposto a questo andazzo ha cercato sempre di impedire in modo sporadico, poco sistematico, l' avanzare di questa tendenza generale. E' sceso a compromessi, oppure ha fatto un’ opposizione dura appellandosi alle “forze sane” del popolo, prendendo lucciole per lanterne. Pochi si sono però accorti, o si sono accorti troppo tardi, che da noi una tale simbiosi ha una lunga tradizione. E guai a non capire la storia e le tradizioni, perché chi non sa pensare in tempi lunghi, non può nemmeno fare la cosa giusta nel breve periodo. E poi, la disconoscenza del terreno dell' agone e dell' avversario è sempre la miglior premessa per la sconfitta. 

( I )

ALCUNI FATTI


Ma lasciamo ora il tono sarcastico e fermiamo l’attenzione su TRE DATI DI FATTO che sono a mio avviso incontrovertibili e di grande rilevanza. Li ordinerei andando a ritroso nel tempo:
1 ) Negli ultimi due decenni abbiamo assistito al progressivo corrompimento morale e mentale di una nazione, manifestatosi nel dilagare a livello pubblico dell’ improvvisazione e dell’ incompetenza istituzionale, dell’ esibizionismo, della mentalità del “fare il colpo”, dell’ uso della cosa pubblica per interessi privati. Se da questa congerie scalcinata ma coerente di fatti si dovesse attingere una definizione di demo-crazia non potremmo che concludere così: “ democrazia = potere alla suburra “. Sì, suburra sono Calderoli, Bossi, Sgarbi, Cota, Fede, Santanché, Feltri, Verdini, mister B. e tante sue “signorine”. E tanta suburra deborda ad ogni ora dagli schermi televisivi.
2 ) Questo bello scenario ha irrimediabilmente “messo in evidenza” quel che qualcuno sospettava da tempo: la mancanza di solidità delle istituzioni repubblicane ed il diffuso disprezzo dei princîpi elementari di ogni democrazia intesa in senso paradigmatico.
3 ) Da circa un secolo – di certo dal 1914 – l’ Italia non ha veramente compiuto dei passi in avanti in termini di senso civico e dello Stato. Infatti quelle che volevano essere gagliarde affermazioni del senso di nazione (intervento nella 1° guerra mondiale e fascismo) si sono rivelate dei grandi disastri collettivi. La guerra, imposta dai conservatori o dagli avventurieri, improvvisata, provocò – come c’ era da aspettarsi – oltre ai suoi orrori, anche dissesto economico e sociale, ed ebbe l’ effetto di minare alla base la già debole democrazia. Il fascismo, che sorse in quella crisi, cercò poi di imporre senso civico e nazionale in modo autoritario ed antidemocratico, secondo uno schema ideologico non solo immorale o criminale, ma profondamente antistorico. Ne seguì una catastrofe ancor più distruttiva ed avvilente. La rigenerazione democratica che ne conseguì, figlia della Resistenza ( la fonte più positiva di idee ed energie dell’ ultimo secolo ), ebbe però ad incagliarsi su due enormi banchi di sabbia: la guerra fredda e la spaccatura ideologico-religiosa del Paese. La nostra fu ed è una democrazia ispirata a sani principi, ma impedita a “fiorire”, spesso svuotata, perché costretta a “convivere” con le spaccature irrisolte del Paese, spaccature di carattere storico o addirittura escatologico. Il crollo della cosiddetta prima repubblica e la fase che stiamo vivendo ci hanno mostrato che restiamo un Paese diviso e debole, assai “arretrato” e diverso dai suoi principali partner europei.

( II )

PRIMO APPROCCIO ANALITICO


( a )


Cerchiamo di fare una brevissima anamnesi dei nostri mali profondi, per poi tentarne una diagnosi lapidaria.
Come dicevamo, negli ultimi due decenni sono ri-sgorgati con forza antichi mali come il familismo, l’ individualismo insaziabile, il privatismo, il primato dell’ istanza locale o del clan o della conventicola religiosa, il clientelismo, il trasformismo, l’ uso cinico e disinvolto di qualsiasi ideologia. A chi volesse capire come stanno le cose, consiglio la lettura di un saggio, assai istruttivo, di Giacomo Leopardi: il “ Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani “. Un lavoro che il nostro precocissimo genio scrisse attorno al 1824, ma venne pubblicato solo nel 1906… e che, ovviamente, continua ad essere sconosciuto alla nostra opinione pubblica.
I mali di cui il recanatese rampognava i connazionali sono più o meno quelli di cui sopra. Ma di che cosa sarebbero sintomo ? In poche parole: della mancanza di una sana società civile, diffusa in tutti gli strati sociali, e capace di stringere i cittadini in forti legami di usi, di costumi e di regole condivisi. Detto in modo ancora più stringato: della mancanza di senso dell’ universale. Hegel aggiungerebbe: anche della mancanza di una classe media conscia di se stessa, quale classe tutrice dell’ universale.

( b )


Ma come mai – direbbe qualcuno – manca finora nelle mie riflessioni storiche qualsiasi riferimento al ’68 ? Una dimenticanza ? O il Sessantotto fu del tutto irrilevante ? Né l’ uno né l’ altro. Credo anzi che non lo si possa tacere, soprattutto se se ne è stati in qualche modo protagonisti.
Da un lato il ’68 fu quel bel movimento che ruppe con i lacci di una cultura bacchettona ed autoritaria, che aprì la breccia verso nuovi modi di vita più liberi, che pose fortemente la questione della giustizia… e che segnò la ripresa degli ideali resistenziali. E finché fu la malattia di crescenza della società, ne va riconosciuta l’ alta valenza positiva. Dall’ altro, va aggiunto che nessuno di coloro che lo animarono o guidarono aveva una sufficiente conoscenza dei problemi profondi del Paese, né una vera comprensione della sua storia e della sua collocazione internazionale. Per noi l’ unico vero problema era quello delle classi subalterne, risolvibile con la presa del potere. Non intuivamo minimamente che nel nostro Paese perfino la scarsa incidenza e coscienza di sé della borghesia erano un problema grave ed insoluto. Al massimo pensavamo che fosse… solo una pagliuzza di problema… che sarebbe stato risolto dal proletariato, padre, madre e levatrice dell’ uomo nuovo! Sì, di tutto si sarebbe fatto carico il proletariato, affiancato dagli studenti, dalle donne in rivolta, dai pastori sardi e via dicendo. Pensavamo di essere all’ alba di qualcosa… ed invece eravamo al tramonto, essendo stato il ’68 l’ ultima rivolta millenaristica del mondo occidentale.
Credo che sia nostro dovere fare i conti con il nostro passato, con i nostri errori, anche se dettati da generosità e da non-conoscenza. Sì, perché il ’68 ebbe anche effetti assai dannosi. Quali ? Ad esempio: si diffuse un disinteresse per le “virtù civili”, non si capì nulla dei veri problemi dello Stato, né si capì dove andavano individuati gli alleati, si diffuse un sentire ed una diffidenza quasi antropologica verso le élites ed il merito. Ma se si ha la schiena diritta i conti vanno fatti, e vanno fatti in pubblico, con una seria autocritica, per salvare quanto di buono abbiamo allora rappresentato e… magari metterci di nuovo in marcia, visto che mi sembra ci sia ancora parecchio da fare.
Sì, perché i maggiori problemi che ci stanno di fronte sono a mio avviso… atavici: sono la nascita di una nazione che meriti questo nome, il sorgere del senso civico, la costituzione di uno Stato giusto ed il suo controllo, la costruzione di una società equilibrata che offra a tutti eguali chances, il problema del buon governo e della trasparenza delle istituzioni, l’ affermarsi di un ceto medio non parassitario, ma anzi dinamico e dotato di senso della giustizia, la promozione della mobilità sociale.
Vecchi paladini inascoltati di queste battaglie furono nel secondo dopoguerra gente come Bobbio, Calamandrei, La Malfa, Montanelli, Lombardi, Amendola, Ernesto Rossi. Chiunque può aggiungere dei nomi, ma se vogliamo guardare le questioni alla radice, nessuno meglio del Gramsci dei Quaderni del carcere capì la natura dei nostri problemi… e capì quanto fosse necessario che il movimento operaio offrisse alle classi medie la chance di rigenerarsi e mettesse le basi per una possibile alleanza con queste. Di questa “stella polare” cercò di fare tesoro il PCI, ma difficoltà obiettive, mancanza di radicalità intellettuale… ed un certo deficit di realismo fecero sì che si perdesse per strada. Al PCI però, se ancora esistesse, noi dovremmo delle scuse… eccome.


( III )

SECONDO APPROCCIO ANALITICO


È inutile girarci tanto intorno: dal punto di vista storico il nostro PROBLEMA DEI PROBLEMI è stato quello della Chiesa Cattolica che, tra il papato di Gregorio VII e quello di Innocenzo III, si è costituita come una monarchia e si è arrogata il diritto di essere la suprema istanza anche sul piano secolare. Non dobbiamo dimenticarlo: l’ obiettivo dichiarato era l’egemonia teocratica. Con ciò l’ Italia divenne il terreno privilegiato dello scontro tra i nostri komeinisti ante litteram e le forze laiche: dalla lotta per le investiture, alla guerra senza quartiere tra guelfi e ghibellini. Poi, quando le pretese teocratiche dovettero rientrare, l’ Italia era nel frattempo diventata un Paese “a macchia di leopardo”, frammentato, humus perfetto per discordie di tutti i tipi. Anche l’ esperienza comunale non ebbe lo spazio storico né mentale per maturare in senso statuale. Nel frattempo, poco alla volta, nel resto d’ Europa nascevano gli Stati nazionali, i quali, spesso per ottenere il consenso della Chiesa, le riconobbero il diritto al dominio sulla penisola, diretto o indiretto. Infatti, tranne la Repubblica di Venezia, gelosa della sua autonomia, tutti gli altri ducati, repubbliche, regni o signorie erano staterelli a sovranità limitata. Per secoli, a livello politico e militare, il Papato pose il veto a qualsiasi velleità unitaria e laica.
A livello culturale ed ideologico il controllo veniva esercitato mediante l’ Inquisizione medievale e la messa all’ indice della letteratura non gradita. A titolo di esempio: il “De Monarchia” di Dante fu pubblicamente bruciato già nel 1328 (a 7 anni dalla morte del poeta), il “Defensor pacis” di Marsilio da Padova già nel 1327, vivente l’ autore, che si dovette rifugiare in Baviera. Cito questi due testi non a caso, ma perché furono i due punti più alti della riflessione di filosofia della politica e del diritto di fine medioevo, libri che ebbero un’ influenza enorme sul resto d’ Europa. Poi venne naturalmente il turno dei Lorenzo Valla, dei Savonarola, dei Machiavelli, degli Erasmo: tutti all’ indice, o al rogo e all’ indice! La situazione precipitò poi alla metà del ‘500, con Papa Paolo IV ed i suoi immediati successori. Per arginare la Riforma protestante la Chiesa ricorse a misure draconiane. In cima a tutti i pensieri dei controriformisti stava la ferma volontà di impedire a tutti i costi che le nuove idee penetrassero nella penisola. Così si avviò una capillarissima opera di repressione e controllo. Così migliaia di “eretici” o sospettati di eresia dovettero fuggire o tacere o mimetizzarsi da bravi cattolici. Il controllo fu tanto severo che tutte le traduzioni in volgare, parziali o complete, della Bibbia vennero vietate e mandate sistematicamente al rogo. Solo la traduzione latina ufficiale era concessa. Dunque accadde che il libro più diffusamente bruciato fu proprio il testo sacro della cristianità. In quella grande operazione di “igiene delle anime” la Chiesa pose fine al Rinascimento ed alla supremazia culturale dell’ Italia, che in tutto durò 350 anni: all’ incirca dal 1280 al 1633 (anno della condanna di Galileo). Alla fine i legami con il resto d’ Europa erano stati recisi e si era diffuso un conformismo da palude.
Come meravigliarsi se i destini della scienza migrarono da altre parti, come meravigliarsi se il nostro Illuminismo e Romanticismo furono poca cosa ? Ma qualcuno dirà: alla fine ce l’ abbiamo fatta. Sì, ma come ? L’ unificazione nazionale è stata il prodotto di alcune élites temerarie alla Garibaldi, nient’ affatto ancorate a, o identificabili con una classe precisa… e di un geniale politico – Cavour – che forzò uno stato come il Piemonte sabaudo, tanto poco moderno e adatto allo scopo, ad imbarcarsi nell’ avventura di “liberare” l’ Italia dagli stranieri. Ma non si dimentichi che senza le truppe francesi la seconda guerra d’ indipendenza non sarebbe stata vinta, che senza la batosta che i Prussiani infersero agli Austriaci la terza guerra d’ indipendenza sarebbe sfociata in una rovinosa sconfitta, che senza la disfatta dei francesi per opera dei tedeschi Roma non sarebbe stata presa. Insomma non sarebbe il caso di impettirsi troppo.
Sia come sia, dal 1860 fino al 1914 si posero finalmente le basi per l’ emancipazione del popolo italiano. Ma che volete che siano 54 anni ? Poi vennero le iatture della guerra e del fascismo, che chinò il capo nel 1929 con i Patti lateranensi. E poi una guerra disastrosa e di cui vergognarsi. In seguito: la liberazione, la Repubblica ed il ritorno alla democrazia, ma una democrazia strozzata da profondi conflitti storici e metastorici. Ed infine il crollo indecoroso della prima repubblica… ed il ritorno all’ epoca delle signorie e ad una parodia di cesarismo. Accidenti, sembrerebbe che il cerchio si sia chiuso! Ma vogliamo rassegnarci a tanto ? Non vi sembra invece venuta l’ ora di riprendere il cammino interrotto nel primo decennio del secolo scorso ?

( IV )

ORBENE, CHE FARE ?

Sarebbe assurdo pensare di ripetere, con una sorta di moviola accelerata, quei percorsi storici compiuti da altri Paesi e preclusi al nostro. Anche se i momenti costitutivi del cambiamento sono in fondo gli stessi, non è pensabile che si debba o si possa ottenere una rigenerazione morale e civile solo mediante le Riforme protestanti o grazie al ripetersi tale e quale dell’ Illuminismo: eventi o processi che mutarono i destini di Paesi come l’ Inghilterra, la Francia, la Germania, l’ Olanda, i Paesi Scandinavi e su cui si fondarono gli Stati Uniti d’ America. No, va percorsa un’ altra via, all’ altezza dell’ epoca presente… ma in ogni caso i conti con la storia e con la Chiesa cattolica vanno ancora fatti. Infatti, quanto dello spirito teocratico e contro-riformistico alberga ancora nelle anime dei militanti di Comunione e Liberazione , i quali non a caso occupano posti di rilievo nella stampa berlu-guelfa, nella gestione della cosa pubblica, nel mondo della cooperazione e della finanza, nel mondo della scuola! E quanti cattolici ancora fedeli al Concilio Vaticano II pensano allo Stato in maniera solo sussidiaria, credono che il volontariato sia l’ espressione massima nella soluzione dei problemi sociali e continuano ad avere poca sensibilità per la questione dello Stato! E quanto dello spirito particolaristico innerva i corpi e le teste di quei lombardi, orgogliosi di Pontida e Legnano ed ancora ignari del fatto cha la “ grande vittoria “ sul Barbarossa fu l’ anticamera del disastro, di quei lombardi che pensano che tutti i problemi si risolvano sbancando Roma ladrona! E quanti meridionali, fedeli di Padre Pio, incarnano ancora un cristianesimo semi-superstizioso e sono convinti che a chi comanda vada sempre chiesto un miracolo, una prebenda o quanto meno un’ elemosina!
Ma non è tutto. Anche la Chiesa avrebbe il dovere di riflettere più a fondo sul suo passato. Dovrebbe ad esempio spiegare agli italiani e a se stessa le ragioni profonde del suo veto – nella penisola, in epoca controriformistica – ad ogni forma di pluralismo cristiano, oppure sforzarsi di capire come mai essa abusò del concetto di eresia per combattere ed annientare tantissime forme di eterodossia che eretiche non erano.

( a )

Ditemi voi, di fronte a questi problemi, come si può pensare che dei partiti politici, per di più disorientati o scalcinati, debbano o possano essere la leva principale per cambiare le cose ? No, non può essere così… anche se, sia il problema di come debbano porsi o costituirsi i partiti, sia quello della tattica politica, sono affari di grande rilievo. Ma non voglio occuparmi ora di questo ambito. Vorrei piuttosto porre questa domanda: come si può fare della tattica sagace se la strategia non è chiara ?
E su questo punto vorrei spendere ancora due parole. Se la mia analisi è corretta; se i mali più profondi e perniciosi da cui è afflitto il nostro Paese derivano dal fatto che, a parte una breve parentesi, a dominare la penisola sono sempre stati i guelfi (non dico i cristiani, né i cattolici tout court, ma la sottospecie guelfa); allora non possiamo ficcare la testa sotto la sabbia rimuovendo questo passato traumatico. Abbiamo anzi il dovere di capire e di far capire che cosa il guelfismo sia stato e sia. E per intenderci meglio vorrei cercare di definirlo.
Il guelfismo è sempre stato in Italia il connubio tra particolare mondano ed universale ultramondano. Un connubio in cui i laici – umili, o potenti, o prepotenti – perseguono i loro interessi privati o di clan delegando all’ istanza ultramondana la gestione dello spirito, dei principi morali e dei riti di identificazione della comunità umana. Una gestione che – ispirata da metri di giudizio ultramondani – guida il pensare e l’ agire, l’ universo volitivo e affettivo, e l’ interagire sociale, lungo l’ asse dell’ alternativa salvezza-dannazione, così come lungo il quadrilatero colpa-pentimento-perdono-cancellazione-della-colpa. Orbene, queste geometrie cattoliche hanno troppo spesso tollerato antichissime forme, addirittura pre-cristiane, di dipendenza e gerarchie sociali come il paternalismo, il familismo ed il clientelismo. Sono inoltre sempre state un perfetto terreno di cultura per eludere o depotenziare i valori, tutti immanenti, dell’ universalità e neutralità della civitas, per mettere in secondo piano, o addirittura deprimere, le virtù civili. Ecco perché sotto certe nobili ali si accovacciano così volentieri tanti paladini della libertà da bracconiere o da mercato nero.
Ma se le cose stanno così, solo una strategia rigorosamente laica ed illuministica può sortire effetti positivi. Penso ad una strategia… della passione per un’ universalità tutta immanente, tesa a far guarire la società dalla sua psicosi maniaco-depressiva, a purgarla dalle mille ingiustizie, dalla sua scarsa o nulla capacità di auto-gestirsi, dall’ arte di strisciare ed arrangiarsi. Penso anche, che solo riferendosi ai princîpi costitutivi delle grandi democrazie – sempre così aspramente osteggiati e mai digeriti dai guelfi di ieri e di oggi – si possa costruire un’alleanza ed un blocco storico capace di affrontare le arcinote, grandi emergenze nazionali:
*la bonifica del Sud Italia dalla mafia, facendo sì che la società si liberi del proprio morbo;
**la rianimazione della scuola pubblica, affinché torni a trasmettere un sapere più adeguato alla comprensione del nostro passato, che sappia formare dei veri cittadini, una scuola capace di integrare… e di offrire uguali chances a tutti;
***una promozione seria della ricerca scientifica;
****la fine dello scempio dell’ ambiente e della edificazione selvaggia;
*****la riqualificazione del senso dell’ imposizione fiscale e la drastica riduzione dell’ evasione, che da noi ha dimensioni assurde e patologiche.
Penso infine, che solo riflettendo un po’ sulla natura di questi compiti, non si possa non bocciare, per il presente, ogni velleità federalistica.

( b )

Non conosco nessun Paese europeo in cui i diritti del cittadino siano tanto sistematicamente calpestati e vilipesi come in Italia. Intendo con ciò il diritto alla incolumità, il diritto di sapere chi siano, se ci sono, i colpevoli di una calamità o di malversazioni o di atti criminali, il diritto a che i denari pubblici vengano spesi con senno ed equità, il diritto ad essere tutelati dai monopoli. Vorrei spiegarmi con alcuni esempi di dominio pubblico ed altri di carattere più privato.
Che sulle stragi di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, di Bologna, che sull’ esplosione dell’ aereo sopra Ustica non si sia mai giunti a verdetti chiari e a punizioni debite e definitive è un’ offesa ed una violenza alla civitas (come già la intesero gli antichi Romani), e con ciò è un’ offesa ed una violenza ad ogni cittadino in quanto tale. Che il ruolo scandaloso o le inefficienze degli apparati dello Stato in queste vicende non siano stati tematizzati dall’ intera collettività nazionale, per giungere quanto meno ad ammissioni di colpa, lo è altrettanto. Ed è anche altamente dannoso che questi fatti non siano stati elaborati fino a divenire patrimonio storico collettivo e condiviso. Idem per le stragi di mafia. Le tante violazioni della legge della libera concorrenza sono altrettante violazioni dei diritti basilari dei cittadini. Che poi, se un treno è in ritardo questo non venga annunciato, o che non si diano ai viaggiatori informazioni su alternative, è pure la violazione di un diritto.
E che dire dell’ esperienza scioccante che feci vedendo che l’ aeroporto della Malpensa, nuovo di pacca, assomigliava ad un’ enorme stazione ferroviaria progettata da dilettanti, e constatando che i collegamenti con Milano ed il resto della Lombardia erano pessimi ? Non hanno forse i cittadini il diritto di usufruire di opere pubbliche adeguate ? E che dire delle nomine degli insegnanti di italiano all’ estero fatte il 20 di settembre con l’ ingiunzione al nominato di presentarsi alla sede estera, con armi e bagagli, il 22 dello stesso mese ? Oppure che dire – modernità delle modernità – delle nomine di lettori di italiano per le università straniere pubblicate senza preavviso, in internet, d’ agosto, concedendo loro solo tre giorni per fare ricorso, pena l’ accettazione o l’ uscita dalla graduatoria ? Queste non sono forse violenze ?
In un qualsiasi altro Paese europeo, diciamo in Francia, quando diritti così fondamentali sono violati, l’ opinione pubblica si ribella. Da noi ci si è rassegnati a non ottenere giustizia. Ma se è così, e non ci si vuole rassegnare alla rassegnazione, non resta altro che organizzarsi dal basso, non resta altro che organizzare la ribellione. Forse dei comitati per il rispetto della cittadinanza potrebbero essere utili… a difendere i cittadini dalle lobby, a che gli abusi siano puniti, a porre dal basso il problema del funzionamento della giustizia, ad assumere conoscenze confrontando i casi nostri con quelli di Paesi normali, a far sì che i diritti degli immigrati siano garantiti.

( c )

Mi sento ovviamente impreparato a dire la mia sui problemi sociali specifici dell’ Italia d’ oggi, perciò questo paragrafo risulta particolarmente “magro”. So però che tra i giovani dilaga il precariato, so che varie forme di sfruttamento della manodopera degli immigrati, soprattutto se clandestini, sono molto diffuse. Non ho idee particolari, ma mi sembra che valga la pena prima di tutto fare il punto sulla capacità o incapacità dei sindacati a fronteggiare questi fenomeni. Ma il nocciolo della questione sociale è anche questo: l’ intiera opinione pubblica deve capire come la precarietà istituzionalizzata, il lavoro nero ed i bassi stipendi, oltre a togliere risorse al bene pubblico, sono l’ anticamera del declino economico. Infatti, nel mondo attuale il lavoro ormai può cercarsi facilmente ovunque la sua allocazione: i giovani più qualificati se ne vanno all’ estero, i migranti più motivati o più capaci fanno lo stesso. E se poi non si mobilitano risorse ed idee per promuovere produzioni e servizi tecnologicamente avanzati, si decade. La concorrenza tra noi e Paesi meglio attrezzati, Germania in testa, è decisamente aumentata. Altro che “ piccolo è bello ! ”, altro che “ ‘nero’ è bello !”. Cetto La Qualunque direbbe: “ Francamente, ‘ntu culu a Bossi e Tremonti ! “
Tornando più seriosi, direi che questioni del genere rimandino immediatamente all’ azione di forze politiche nazionali, che debbono avanzare proposte di riforma del mercato del lavoro e forse promuovere la vecchia idea dell’ alleanza tra i ceti produttivi ( o aspiranti tali ).

( d )

Non è possibile dimenticare, infine, il terreno della conoscenza di ciò che si è e di come lo si è diventati: quello dell’ autocoscienza di un popolo, quello delle idee-forza, quello dello sviluppo della cultura. Anzi, questa mi pare addirittura la via maestra e la leva massima per affrontare gli storici deficit del nostro Paese. Infatti, come si può trovare il punto archimedico per l’ agire se non grazie e mediante il pensiero, la riflessione, l’ ampliamento dell’ orizzonte conoscitivo ? È qui che ha luogo la purificazione e la metamorfosi di sé e degli altri.
È un dovere a lungo trascurato quello di produrre sapere, di creare momenti di discussione e diffusione della conoscenza a partire dal basso, dalla città. È colpevolmente dannoso non fare il controcanto allo strapotere di certa televisione, vero oppio del popolo. È un dovere fare dell’ associativismo culturale mirato. Ma mirato in che direzione ? Credo che già dalle pagine precedenti si possano trovare delle tracce. Al primo posto mi sembra vada messo il compito di studiare, capire, diffondere sapere sulla storia d’ Italia, soprattutto nei suoi snodi decisivi, avendo cura di confrontarla con la storia d’ Europa. Ma, si sa, se non si hanno strumenti intellettuali adeguati… la storia diventa un rosario di fatti opachi nel loro significato. Allora anche lo sviluppo delle idee va conosciuto a fondo, al microscopio.
Ecco un esempio eclatante: è increscioso che il “De Monarchia” di Dante non sia mai divenuto parte del patrimonio culturale di base di ogni cittadino italiano. Quell’ opera, ostica ed accorata, è uno studio di grande valore per contestare e contrastare l’ idea di teocrazia applicata all’ Europa, è un’ analisi lucida e spietata del male che si stava sviluppando sotto le ali “protettrici” del potere unificato (spirituale e secolare) della Chiesa: la cupiditas, madre di ogni forma di corruzione. È un invito al buon governo, da affidare al potere secolare universale, che ai suoi tempi era l’ impero. È un anche un appello, un monito, a seguire quella via per amore del bene più prezioso per la comunità umana: la pace. Ebbene, ho un vago ricordo dei miei lontani giorni di liceo, ma mi sembra che quest’ opera di Dante venisse liquidata come qualcosa di anacronistico, scritta da chi non voleva tenere conto dello sviluppo delle autonomie comunali ! Infatti la gloria stava… allora… dalla parte degli eroi di Pontida e di Legnano ! Ma come ci siamo potuti bere simili panzane? Ma se il “De Monarchia” è scritto da uno che aveva visto gli esiti della vittoria guelfa, di uno che la vita comunale la conosceva benissimo e che, se non fosse fuggito, non avrebbe potuto conservarvi la propria testa! Ma se il “De Monarchia” è una sorta di saggio-guida alla “Divina Commedia “! Ma se Dante nella sua stesura aveva in mente Bonifacio VIII ed altri Papi, da collocare in pianta stabile all’ Inferno ! Come mai un simile travisamento del vero? Non vi dice qualcosa il fatto che l’ opera fu tolta dalla circolazione, pochi anni dopo la sua stesura? Una volta sepolto, il sapere fa molta fatica a rivedere la luce. Se poi, riemerso, nessuno lo coltiva né lo diffonde, rimane lettera morta.
Il criterio guida per un ripensamento di tutta la nostra storia penso che si offra da sé: è il bisogno di creare e diffondere il senso del bene comune e dell’ universale.
Alcuni momenti chiave che chiedono di essere studiati o ristudiati, che chiamano alla riflessione sono a mio avviso: la lotta per le investiture, lo scontro tra guelfi e ghibellini, Comuni e Signorie, il Rinascimento in Italia, la Riforma protestante e la Controriforma, la formazione degli Stati laici moderni, il Risorgimento e l’ unità nazionale, la prima guerra mondiale, il fascismo, la Resistenza e l’ Italia repubblicana.
Penso che lo sviluppo di una rete di circoli, attivi sul territorio, sia il passaggio naturale per compiere questo lavoro, che deve conoscere un’ ampia diffusione, deve essere da stimolo per incontri, conferenze, mostre itineranti, contatti con il mondo della scuola. Un lavoro che deve anche creare la richiesta, una sorta di committenza e stimolo, rivolta all’ editoria a pubblicare, in modo serio e consono, testi e studi del e su quel passato. Un lavoro bello e salutare per tutti.

Heidelberg, 29 / 12 / 2010
Beppe Vandai

Testo della conferenza “Nave sanza nocchiere…” tenuta dallo Beppe Vandai il 24 / 02 / 2011 all’ ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI –
Scuola di Heildeberg ( Apothekergasse, 3 # D-69117 Heidelberg ).

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